ANTIFONTE di RAMNUNTE

VITA
Antifonte (Ramnunte, circa 480 a.C. - Atene, 411 a.C.) inaugurò la grande tradizione retorica ateniese e si procurò fama come scrittore di discorsi per conto altrui. I suoi molteplici interessi lo portarono a comporre anche opere di carattere fisico, etico e politico (fino a poco tempo fa attribuite ad un omonimo «Antifonte il sofista»).
Nel 411 a.C. ispirò la congiura che portò all'effimero governo oligarchico dei Quattrocento, caduto il quale fu processato e condannato a morte.
Scrisse numerose orazioni (alcune a carattere didattico, le Tetralogie), Sulla verità, Sulla concordia, Sull'interpretazione dei sogni.

PENSIERO

La natura e l'uomo
I pochi frammenti conservati dell'importante opera Sulla verità consentono solo a fatica di formarsi un'idea del pensiero di Antifonte, che doveva attraversare tutti i campi del sapere all'epoca coltivati: fisica, antropologia, teoria della conoscenza, etica, politica. Una testimonianza di Aristotele può costituire però un buon punto di partenza:

Pare ad alcuni che la natura (phýsis) e l'esistenza delle cose che sono per natura sia l'elemento primo che inerisce in ciascuna, che di per sé è informe (arrhýthmiston): per esempio la natura del letto è il legno, della statua è il bronzo. Segno di ciò, dice Antifonte, è il fatto che se si seppellisse un letto e la putredine del legno acquistasse la capacità di mettere germoglio, non nascerebbe un letto, ma legno, poiché ciò che inerisce alle cose per accadimento (katá symbebekós) è la disposizione secondo una norma (ten katá nómon diáthesin) e la tecnica, mentre l'esistenza (ousía) è quella che attraversa queste cose e permane costantemente (Fisica 1.1, 193 a9-17 = DK 87 B 15).

Malgrado la somiglianza con le concezioni di tipo naturalistico diffuse nella nuova cultura ateniese, l'affermazione di Antifonte non sembra equivalervi. Essa è infatti percorsa da un deciso pessimismo sulla consistenza delle «cose» così come esse ci appaiono: tutto ciò che in esse è forma (rhythmós), norma (nómos), individualità, è destinato a scomparire dietro ad un'anonima materia «naturale» che rimane sempre identica. La giustezza di questa interpretazione è confermata da alcuni frammenti in cui la vita umana viene considerata con malinconia:

La vita assomiglia ad un'effimera vigilia, la lunghezza della vita, per così dire, ad un solo giorno; nel quale, appena dato uno sguardo alla luce, lasciamo la consegna agli altri che sopravverranno (DK 87 B 50).
Non ci è permesso giocare un'altra volta la vita come una pedina (DK 87 B 52).
Mirabilmente si presta ad accusa ogni forma di vita, mio caro, poiché nessuna ha nulla di elevato, o di grande o di venerando: ma tutto vi è di piccolo, debole, di breve durata, e mescolato a grandi dolori (DK 87 B 51).

La consapevolezza della precarietà della vita, se da una parte induce Antifonte per esempio a considerazioni ironiche sull'accumulo di ricchezze che non possono essere neppure godute (DK 87 B 53-54), dall'altra lo spinge a valorizzare quegli elementi nella vita umana più vicini alla sua dimensione psicologica e naturale. È così che riguardo alla formazione si sottolinea il valore delle compagnie (DK 87 B 62) e delle abitudini contratte fin da piccoli (DK 87 B 61), e la stessa forza dell'educazione viene interpretata in termini naturali:

La cosa principale, credo, negli uomini, è l'educazione. Perché quando, uno ha compiuto bene l'inizio di qualsiasi cosa, è verosimile che finisca anche bene; così per la terra, quale è il seme che uno ha seminato, tali dovrà aspettarsi anche i frutti; e allo stesso modo per un corpo giovane, quando uno vi abbia seminato una nobile educazione, questa vegeta e fiorisce per tutta la vita, e né la pioggia né la siccità la distrugge (DK 87 B 60).

In questo stesso quadro possono essere comprese due testimonianze che fanno di Antifonte l'inventore di una terapia contro le sofferenze dell'animo effettuata tramite la parola (della quale poco prima Gorgia aveva teorizzato il potere) e l'autore di un'opera Sull'interpretazione dei sogni, in cui probabilmente la tradizionale lettura religiosa veniva abbandonata a favore di una interpretazione psicologica.

La natura e la legge
L'inserimento di questa visione dell'uomo nel campo politico pone Antifonte al centro di uno dei dibattiti più acuti nell'Atene contemporanea: quello riguardante il contrasto tra natura e legge, tra ciò che è spontaneo e ciò che viene prescritto esteriormente. In un importante frammento, Antifonte esordisce osservando come il concetto corrente di «giustizia» sia insufficiente per comprendere quale sia l'effettivo bene dell'uomo:

«Giustizia» consiste nel non trasgredire alcuna delle leggi della città di cui uno sia cittadino; e perciò l'uomo applicherà nel modo a lui vantaggioso la giustizia, se farà gran conto delle leggi, di fronte a testimoni; ma in assenza di testimoni, delle norme di natura; perché le norme di legge sono accessorie, quelle di natura, necessarie; quelle di legge sono concordate, non native: quelle di natura, sono native, non concordate. Perciò, se uno trasgredisce le norme di legge, finché sfugge a quelli che le hanno concordate, va esente da vergogna e da pena; se non sfugge, no. Ma se invece violenta oltre il possibile le norme poste dalla natura, se anche sfugge a tutti gli uomini, non minore è il male, né è maggiore se anche tutti lo sanno; perché è danneggiato non dall'opinione, ma dalla verità (DK 87 B 44 A).

Insomma, solo la natura, quella che «permane costantemente», può essere il punto di riferimento per guidare l'uomo verso ciò che gli è utile, giacché il più delle volte la legge convenzionale è appunto contro di essa:

Questo essenzialmente è l'oggetto della nostra indagine, che cioè la maggior parte di quanto è giusto secondo legge, si trova in contrasto con la natura; così per legge è prescritto agli occhi ciò che debbono guardare e ciò che no; alle orecchie ciò che debbono udire e ciò che no; alla lingua ciò che deve dire e ciò che no; alle mani, ciò che debbono fare e ciò che no; ai piedi, dove debbono andare e dove no; e alla mente, ciò che deve desiderare e ciò che no. Eppure alla natura non sono né più amiche né più appropriate le cose che le leggi vietano agli uomini, di quelle che esse prescrivono. Perché tanto la vita che la morte son cose di natura; e la vita proviene agli uomini da ciò che è utile, la morte da ciò che è dannoso. E quanto all'utile, ciò che è prescritto dalla legge è una catena per la natura, ciò che è prescritto da natura è libero; dunque non è logico che ciò che dispiace giovi alla natura più di ciò che piace; né, perciò, può essere più utile il dolore del piacere. Perché ciò che è utile davvero, deve recar giovamento, non danno (DK 87 B 44 A).

Nel seguito del frammento Antifonte esemplifica tale principio grazie ad un'analisi della procedura giudiziaria. Le sue norme solo apparentemente sono eque: in primo luogo esse dànno per ovvio che possano essere perpetrate offese, in secondo luogo non tutelano affatto l'offeso perché lo costringono a difendere i suoi diritti dinanzi ad un tribunale, con il pericolo che il discorso dell'offensore risulti più persuasivo, mentre i testimoni da parte loro rischiano di attirare su di sé ritorsioni e risentimento.
La prevalenza della natura sulla legge è anche il punto di partenza per un'affermazione sull'uguaglianza naturale dei popoli. Mentre viene dato per ovvio che i Greci siano il popolo più intelligente, si sostiene anche che la loro superiorità non deriva dalla natura (ma - si può per esempio intendere - dall'educazione):

Noi rispettiamo e veneriamo chi è di nobili padri, ma chi è di famiglia plebea, né lo rispettiamo, né l'onoriamo. In questo, siamo diventati gli uni verso gli altri come barbari. Per natura infatti tutti siamo assolutamente adatti ad essere sia Greci sia barbari. Basta osservare le necessità naturali proprie di tutti gli uomini: è ugualmente possibile a tutti procurarsele e in tutte queste nessuno di noi può esser definito né come barbaro né come greco. Tutti infatti respiriamo l'aria con la bocca e con le narici e tutti noi mangiamo con le mani (DK 87 B 44 B).

Affermare l'uguaglianza naturale non implica dunque sposare le tesi della democrazia: pare certo che l'autore di queste considerazioni è proprio lo stesso Antifonte che venne condannato a morte per aver sostenuto un colpo di stato aristocratico. In effetti, lo spazio dell'educazione può creare quelle differenze che rendono preferibile un sistema politico in cui al governo siano solo i pochi «migliori». Una posizione analoga si può ravvisare nel sofista Ippia: anche a lui Platone fa pronunciare una dichiarazione sull'universale fratellanza degli uomini conclusa da una presa di distanza dagli uomini «peggiori»:

Uomini qui presenti, io credo che voi siate tutti quanti parenti e famigliari e cittadini per natura, non per legge; perché per natura il simile è parente del suo simile, mentre la legge, che è tiranna degli uomini, commette molte violenze contro natura. Ora dunque è indecoroso che noi - pur conoscendo la natura delle cose essendo i più sapienti dei Greci, e proprio per questo ora convenuti nel pritaneo stesso della sapienza della Grecia e per di più nella casa più grande e più nobile di questa città - non esprimiamo nulla degno di tanta dignità, ma ci distinguiamo l'uno dall'altro come fanno i peggiori degli uomini (Protagora, 337 c7-e2 [greco]).

[Per gentile concessione di Mondodomani.org
Copyright © 2001 Giovanni Salmeri]